Licenziamenti nel settore pubblico e la riforma dell’art. 18. Cronaca di una specialità

Licenziamenti nel settore pubblico e la riforma dell’art. 18

Cronaca di una specialità

 

 

Il dibattito scaturito con la riforma dell’art. 18 ha colpito in maniera inaspettata il mondo sonnolento della pubblica amministrazione, che lontano dalle logiche della privatizzazione si riteneva escluso da  quel dibattito che tanto stava animando il settore privato. Come è accaduto con il decreto legislativo 276/2003, in materia di riforma del lavoro flessibile, e con il d.lgs. 66/2003, in materia di orario di lavoro, il datore di lavoro pubblico non è mai tra i promotori o sostenitori di queste norme. Le subisce e, quando sono in dirittura di arrivo, si pone il problema dell’applicazione, riuscendo a spuntare una semplice (e non sempre chiara) norma contenente un percorso di armonizzazione o di deroga.

La stessa cosa è accaduta con il processo di riforma  del mercato del lavoro avviato dal Governo Monti, ora il ddl AS 3249 recante “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”, che avrà delle ricadute nel settore pubblico non solo con riguardo ai licenziamenti, ma anche con riferimento al ricorso al lavoro flessibile. Misure quest’ultime che avranno pesanti ricadute sui rinnovi dei contratti a termine nelle pubbliche amministrazioni, di cui le pubbliche amministrazioni hanno sempre abusato. Parleremo di norme che sono in continua evoluzione e che probabilmente cambieranno, visto l’acceso confronto in atto nel mondo del lavoro su tali proposte.

 

Il diverso contesto e le diverse origini

 

Per comprendere le finalità di questa riforma del mercato del lavoro e le specificità e punti di convergenza rispetto alla riforma del settore pubblico è utile ricordare i motivi che hanno spinto a promuovere tale provvedimento. La relazione illustrativa al provvedimento esordisce affermando che “il disegno di legge recante Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita mira a realizzare un mercato del lavoro dinamico e inclusivo, idoneo a contribuire alla crescita e alla creazione di occupazione di qualità, ripristinando allo stesso tempo la coerenza tra la flessibilità del lavoro e gli istituti assicurativi.” Finalità che si collocano nel percorso di riforme avviato dal Governo in carica con i provvedimenti in materia di liberalizzazioni e semplificazioni e che mirano a rendere il contesto normativo in materia più favorevole all’impresa, più rigoroso in merito al ricorso al lavoro flessibile e comunque più certo e semplificato per tutte le parti. Una riforma, come è emerso dal dibattito, che si è incentrata su uno scambio, che poco vedremo riguarda il settore pubblico, tra maggiore semplificazione e minori tutele nei processi relativi ai licenziamenti da un lato e maggiori vincoli e oneri nel ricorso al lavoro flessibile dall’altro. Uno scambio o contemperamento di interessi tra le parti del mercato del lavoro, che poco coinvolge il settore pubblico in quanto i vincoli in materia di lavoro flessibile sono prevalentemente di carattere finanziario ma, dato l’art. 97 della Cost., non possono prevedere la tutela reale della trasformazione del rapporto a tempo indeterminato e in quanto il fenomeno del recesso nel rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni è veramente circoscritto.

 

La “flessibilità in uscita”

 

Il tema che tratteremo, e che ha attirato anche l’attenzione dei media, è in particolare quello dei licenziamenti. Istituto che il settore privato, è giusto ricordarlo, ha chiesto di semplificare e che il settore pubblico, possiamo dirlo, ha raramente applicato. Occorre partire da questo dato empirico per ricordare che ci troviamo di fronte a due mondi del lavoro ben differenti e non tanto dal punto di vista normativo. Quello privato, che non può sopportare un inutile costo del lavoro in caso di crisi economica o tollerare nella propria organizzazione comportamenti individuali sanzionabili disciplinarmente con il licenziamento; e il mondo del lavoro pubblico, che invece opera sul deficit spending, che non si pone il problema di crisi finanziaria ma che anzi è portato a svolgere il ruolo di ammortizzatore sociale. I casi di recesso pertanto sono così rari che solo pochissimi dirigenti (e solo con riferimento al licenziamento disciplinare) si sono imbattuti nelle difficoltà probatorie di un processo del lavoro e nella dichiarazione di illegittimità del licenziamento. Anzi essendo pochi i casi di licenziamento disciplinare nel pubblico, questi hanno riguardato il più delle volte fattispecie così gravi, spesso fondate su condanne penali, che difficilmente il giudice del lavoro ha potuto dichiarare l’illegittimità del licenziamento. Illegittimità che, è bene subito ricordare, porta oggi anche nel settore pubblico come conseguenza al reintegro.

Una serie di difficoltà rappresentate dai direttori del personale delle ppaa sono state affrontate dal legislatore della riforma con il d.lgs. 150/2009. Come ad esempio: le modalità di pubblicità del codice disciplinare, la fattispecie del licenziamento per falsa attestazione della presenza o per rifiuto al trasferimento o il coordinamento tra procedimento penale e disciplinare.

Ma la differenza, ancora una volta, è che si tratta di norme non richieste dal datore di lavoro pubblico (es. Dirigenti, Anci, Regioni o Upi), ma anzi imposte allo stesso. Imposte dal legislatore e in alcuni casi anche avversate dal datore di lavoro pubblico. Diversamente, nel settore privato tali disposizioni sono richieste dalle associazioni dei datori di lavoro. Ritorna il tema del datore di lavoro pubblico come fictio iuris.

 

In generale, per entrare nel merito del dibattito, l’evoluzione del diritto del lavoro porta oggi a dire che il lavoratore non può essere protetto prescindendo dalle condizioni economiche dell’impresa (dell’Ente) e compromettendo l’attività economica. Nell’attuale contesto storico ed economico il diritto non può ignorare le esigenze di efficienza e competitività del sistema economico, come tra l’altro Marco Biagi e Pietro Ichino ci hanno insegnato, superando l’approccio tradizionale del diritto del lavoro. Se la tutela del lavoratore non può spingersi fino a compromettere la libertà e le opportunità di impresa, considerati interessi oggetto di tutela costituzionale, ancor di più è possibile spingersi nel caso del datore di lavoro pubblico, del quale occorre garantire il buon andamento e la possibilità di erogare i servizi. In quest’ultimo caso l’interesse da contemperare e da salvaguardare non è quello privato dell’imprenditore (ex art. 41), ma quello pubblico e generale di assicurare i servizi, che si fonda sull’articolo 97 della Costituzione, nonché sugli articoli che richiamano l’intervento della Repubblica nell’assicurare l’uguaglianza sostanziale ed una serie di diritti sociali fondamentali. La crisi finanziaria di alcuni Stati europei e la crisi del debito sovrano, accompagnata da una crescita della pressione fiscale, tra le più alte al mondo, fanno capire come il settore pubblico, se non vuole svolgere un ruolo di mero erogatore di stipendi deve avere lo strumentario normativo per avviare processi di riorganizzazione efficaci e semplificati, al fine di salvaguardare le funzioni.

 

Detto questo, per approfondire la questione occorre ricostruire l’attuale quadro normativo, per capire quindi l’impatto delle nuove norme contenute nel disegno di legge e in particolare negli articoli 13, 14 e 15. Ai nostri fini occorre distinguere tra due macro fattispecie: quella dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (come la situazione economica o funzionale) e quella dei licenziamenti disciplinari (giustificato motivo soggettivo). Fattispecie che hanno per la PA specifiche regolamentazioni nel d.lgs. 165/2001, rispetto a quanto previsto nel settore privato, e che “incontrano” ad un certo punto sia la legge 604/1966 che la legge 300/1970, in un rapporto tra legge speciale (il d.lgs. 165/2001) e norma generale (norme sui licenziamenti individuali e Statuto dei lavoratori). Occorre inoltre ricordare che l’art. 51 del richiamato d.lgs. 165/2001 precisa che “la legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti“. Inoltre, l’art. 2, comma 2, del d.lgs. 165/2001 afferma che “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa”, con esclusione delle specifiche disposizioni contenute nel richiamato decreto legislativo del 2001.  Quindi occorre distinguere tra l’apparato sanzionatorio relativo alle conseguenze del licenziamento invalido (vedi art. 18) e le norme che disciplinano le fattispecie e le procedure che portano all’estinzione dell’obbligazione rapporto di lavoro. In merito a queste ultime, di recente il legislatore ha aggiornato le norme per il settore pubblico, rendendole maggiormente applicabili e superando una serie di criticità che impedivano l’effettiva e piena applicazione delle norme in materia. Si vedano le integrazioni all’art. 55 e seguenti del d.lgs. 165/2001 in materia di licenziamento disciplinare e la modifica integrale dell’art. 33 in materia di licenziamento collettivo. Anche qui occorre ricordare che, se vi sono stati diversi casi di licenziamento disciplinare, non risultano casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo pur ricorrendone sovente i presupposti, soprattutto oggi dopo l’ampliamento delle fattispecie, con la novella all’art. 33 del d.lgs. 165/2001 apportata dalla legge 183/2011. Altrettanto rari i licenziamenti per responsabilità dirigenziale per grave inosservanza delle direttive ai sensi dell’art. 21, comma 1, del d.lgs. 165/2001.

Risulta evidente che esperiti i due specifici percorsi (disciplinare e giustificato motivo oggettivo economico) per il settore pubblico si incontra, in caso di licenziamento privo di giustificazione (diverso da inefficace o discriminatorio, in quest’ultimo caso è nullo), il reintegro come tutela ai sensi dell’art. 18 della legge 300/70, prescindendo dal numero dei dipendenti. La proposta del Governo prevede come è noto una modifica all’art. 18 della legge 300/70, che contempla in caso di licenziamento per motivi economici, privo di giustificazione, non il reintegro, ma “un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo“. La modifica ultima al testo, oggetto di acceso confronto politico, prevede la reintegrazione nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, nell’ipotesi in cui il giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Il tema della flessibilità in uscita viene affrontato, quindi, erroneamente a parere di chi scrive, nella fase della tutela (art. 18 della legge 300/1970), e non nella fase dell’individuazione delle cause e motivazioni, con delle tipicizzazioni puntuali. Nella proposta del Governo viene toccato, altresì, il tema delle conseguenze del licenziamento illegittimo per vizi di forma, prevedendo per tali ipotesi (violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, della procedura di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604) che  il giudice dichiari risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento,  “ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o sesto” del nuovo articolo 18.

L’impatto e l’utilità di tale riforma vanno valutati alla luce dei contesti produttivi ed organizzativi dei diversi “mercati” del lavoro e non in astratto. Nel caso del settore pubblico si pone, di fronte al pagamento di un indennizzo, il problema della responsabilità erariale, in quanto il dirigente incorrerebbe nella stessa se non venisse prevista un’esclusione (come nella conciliazione). Tale modifica della tutela pertanto, se non esclusa per il settore pubblico, senza le garanzie in materia di responsabilità erariale, disincentiverebbe ancor più il dirigente nell’attivare il già raro procedimento di licenziamento. Inoltre, per un bilancio di una PA, pagare in un’unica soluzione tante mensilità di indennizzo potrebbe compromettere ulteriormente e irreversibilmente il bilancio, preso a riferimento per giustificare il licenziamento.

L’applicazione di questa parte della riforma anche al settore pubblico, e quindi prevedere in caso di annullamento del licenziamento per giusta causa solo un indennizzo, dovrebbe contenere dunque qualche specifica nel settore pubblico, al fine di evitare effetti paradossali.

 

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel settore pubblico

 

Il tema si pone con un certo interesse soprattutto rispetto al nuovo articolo 33 del d.lgs. 165/2001, che non trova ancora una giurisprudenza e delle problematiche applicative, ma che è il caso di approfondire in occasione di questa riforma del mercato del lavoro. Il procedimento novellato dalla legge 183/2011 risulta particolarmente semplificato dal punto di vista delle causali di giustificazione del licenziamento, in quanto fa riferimento a tre fattispecie: soprannumero rispetto alla dotazione organica, eccedenze in relazione alle esigenze funzionali ed eccedenze in relazione alla situazione finanziaria. Si tratta nel settore pubblico di tre fattispecie che si fondano quasi sempre su atti formali e che costituiscono una base probatoria certa sulla quale difficilmente il giudice di merito potrebbe sindacare (come in generale ribadito dall’art. 30, comma 1, della legge 183/2010). E’ utile in questa sede fare alcuni esempi. Gli atti di organizzazione e le dotazioni organiche, con le quali attestare le eccedenze, sono atti organizzativi di natura regolamentare, soggetti a formalizzazione in base alla riserva di legge di cui agli artt. 2, comma 1, e 6 del d.lgs. 165/2001. Le esigenze funzionali possono essere di carattere macro, e quindi fondarsi su una cessione di funzioni, la gestione associata delle stesse, le varie forme di esternalizzazione, e necessitano pertanto di atti formali di carattere organizzativo, certi, spesso supportati da documenti di bilancio e dal parere del collegio dei revisori. Vi può essere in questo caso anche una dimensione micro e gestionale, che può avere effetti in termini di riduzione e trasformazione delle attività connesse ai processi di innovazione tecnologica e di razionalizzazione, e che potrebbe basarsi su atti gestionali formalizzati come piani della performance, di informatizzazione o i piani di razionalizzazione di cui all’art. 16 del DL 98/2011. La terza fattispecie, di particolare gravità e attualità nell’attuale periodo storico, riguarda le eccedenze per situazioni finanziarie. E’ evidente innanzi tutto che “le situazioni finanziarie”, richiamate al comma 1 dell’art. 33, costituiscono fattispecie diverse dal “giustificato motivo oggettivo economico”. Il dato finanziario, innanzi tutto, è meno aleatorio e incerto di quello economico. In questo quadro i numerosi tetti di spesa sul personale e l’irrigidimento delle misure sul patto di stabilità rendono chiari, insindacabili e persino inderogabili i presupposti per i quali ci si può trovare di fronte a gravi situazioni finanziarie. Alcuni casi sono ad esempio: il non rispetto del tetto di spesa per il personale, il taglio significativo dei capitoli di funzionamento e per le locazioni degli stabili, il mancato rispetto del patto di stabilità o le situazioni di deficitarietà strutturale o di dissesto, il mancato rispetto del tetto di spesa sul fondo di finanziamento ordinario per le Università, il mancato rispetto del piano di rientro nella sanità, et.

Ovviamente l’applicazione di queste norme apre per il settore pubblico tutta una serie di problematiche mai affrontate, come ad esempio i criteri di scelta per gli esuberi. In questo caso il settore pubblico non avendo molti profili specialistici non potrebbe tanto far affidamento sulle “esigenze tecniche e produttive”, ma sui carichi di famiglia e l’anzianità, da decidere poi se anagrafica o aziendale (vedi art. 5 legge 223/91). Dal punto di vista della tutela, l’impugnazione (disciplinata ai sensi della legge 604/1966 e della legge 223/1991) nel caso di specie dovrebbe riguardare la messa in disponibilità di cui al comma 7 dell’art. 33, ma potrebbe interessare anche degli atti presupposti (atti di organizzazione e bilancio). Dopo la messa in disponibilità il settore pubblico ha un meccanismo di gestione della mobilità attraverso gli articoli 34 e 34bis del d.lgs. 165/2001 molto procedimentalizzata, di assoluta garanzia, ma che potrebbe generare ulteriori casi di contenzioso, rispetto ai criteri di assegnazione di detto personale. Quindi, per maggior chiarezza, il tema della tutela prevista dall’art. 18 si pone, nel caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, già rispetto alla procedura prevista dall’art. 33 del d.lgs. 165/2001.

 

Differenziare o convergere?

 

Posto che non è ancora certa quale sarà la scelta definitiva del legislatore in materia di art. 18, per capire quale scelta politica effettuare in merito all’esclusione o meno del settore pubblico dalla riforma del lavoro occorre fare qualche breve considerazione sulle esigenze del settore pubblico.

La riforma del sistema sanzionatorio previsto dall’art. 18, come è noto, è stata chiesta dal mondo dei datori di lavoro del settore privato per poter avere minori impedimenti e maggiore flessibilità in uscita e per poter affrontare meglio andamenti economici ciclici e repentinamente mutevoli. Nel settore pubblico tale “semplificazione” non sembra essere necessaria, sia per la maggiore prevedibilità delle situazioni di crisi sia per la certezza e dimostrabilità delle stesse dal punto di vista probatorio.

Ma probabilmente il tema investe in generale le politiche e i comportamenti della PA, in quanto il vertice politico di un’amministrazione pubblica (e quello amministrativo) si adopera sovente per mascherare le gravi situazioni finanziarie e quindi per evitare i licenziamenti e, prima ancora, le sanzioni connesse al mancato rispetto delle norme di finanza pubblica. I diversi casi di fallimento di città, asl e regioni, tardivamente scoperti e ripianati dalle finanze pubbliche, sono a tutti noti.

Il paradosso circa la possibilità per il datore di lavoro pubblico di utilizzare i “benefici” della riforma, come il non reintegro in caso di mancanza dei presupposti per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è che in questo caso non ci troveremmo di fronte a scelte di libertà aziendale, ma per la maggior parte a situazioni attestate e certificate di mutamento delle funzioni o di criticità finanziarie che ben giustificherebbero (anzi richiedono) “la riduzione o la trasformazione di attività o di lavoro”. Partendo dalle fattispecie concrete quindi è possibile concludere che il datore di lavoro pubblico non avrebbe difficoltà a dimostrare la veridicità e congruenza dei casi in cui necessita ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo economico e assicura inoltre una tutela ulteriore rafforzata con il meccanismo dell’assegnazione ai sensi degli articoli 34 e 34bis del d.lgs. 165/2001.

 

Circa la scelta di applicare anche al settore pubblico questa riforma, è interessante ricordare, da ultimo, come il d.lgs. 110/2004 ha modificato l’art. 24 della legge 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi, prevedendo per “datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” l’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, cioè il pagamento dell’indennizzo in luogo del reintegro. Data questa particolare deroga, non sarebbe strano (ove non paradossalmente già ricomprendibili per i settori cultura e istruzione) immaginare di includere per questa via anche le pubbliche amministrazioni pubbliche, che certamente sono “datori di lavoro non imprenditori”. Da scongiurare, in tale materia, scelte pasticciate come richiami ai principi o a processi generici di armonizzazione, che non soddisfano l’esigenza principe della certezza del diritto e delle tutele. La scelta operata dal Governo nel disegno di legge attraverso l’art. 2 non è delle più felici, in quanto al primo comma  fa riferimento genericamente al fatto che le disposizioni della riforma “per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’articolo 2, comma 2 del medesimo decreto legislativo.” Un’affermazione che non fa riferimento a criteri e principi per una delega da esercitare successivamente, ma che anzi qualifica le norme come principi per l’immediata regolamentazione. Il comma 2 dello stesso articolo non appare altresì adeguato, in quanto prevede che “il Ministro per la Pubblica Amministrazione e per la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle Amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle Amministrazioni pubbliche.”  Una mera funzione di indirizzo politico, che non potrebbe esercitarsi in modo concreto se non attraverso atti legislativi ed eventuali accordi contrattuali. L’art. 2, in parole povere, sembra più una nota e un pro memoria in vista di qualche altra scelta che verrà definita durante l’iter parlamentare del provvedimento e che dovrà contenere certamente una delega, nonché un chiarimento circa il regime transitorio da applicare. Nel testo sono inoltre previste delle esplicite esclusioni per il settore pubblico, come quella all’art. 22, sull’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi), la nuova indennità di disoccupazione, e quella all’art. 29, sul contributo addizionale di finanziamento della stessa, che avrebbe avuto un notevole impatto sul costo del lavoro flessibile nelle pubbliche amministrazioni. Importante, sarà invece cogliere le novità introdotte negli articoli iniziali del disegno di legge in merito al ricorso ai contratti di lavoro flessibili. L’abuso da parte del datore di lavoro pubblico nel ricorrere in particolare ai contratti a termine renderebbe utile, ad esempio, estendere alle ppaa la deroga sulle causali solo per i contratti di durata inferiore ai sei mesi (per indurre a far ricorso a contratti brevi) o il tetto dei 36 mesi nel ricorso allo stesso lavoratore, computando anche i periodi di utilizzo attraverso contratti di somministrazione. Ricordiamo infatti che il continuo e prolungato ricorso al lavoro flessibile nel settore pubblico, senza la tutela della trasformazione del rapporto, ha generato il fenomeno del precariato storico e delle stabilizzazioni senza concorso. Una revisione della normativa applicata al settore pubblico e un miglior coordinamento tra l’art. 36 del d.lgs. 165/2001 e d.lgs. 368/2001, pertanto, risultano ormai necessari.

 

 

Considerazioni conclusive

 

Il tema ampiamente dibattuto è stato quello riguardante la scelta di applicare anche al settore pubblico le nuove disposizioni di modifica sui licenziamenti.

Una eventuale “specialità positiva” di esclusione prevista dal legislatore, potrebbe essere giustificata dalla procedura di tutela nella ricollocazione ex artt. 34 e 34bis del d.lgs. 165/2001 e potrebbe compensare le specialità in negativo di cui soffrono i lavoratori delle pubbliche amministrazioni con riferimento, ad esempio, al divieto di trasformazione a tempo indeterminato in caso di violazione dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001, in materia di lavoro flessibile, o di non riconoscimento dell’inquadramento nella qualifica superiore in caso di svolgimento delle mansioni superiori. “Specialità” che, è vero, poggiano sull’art. 97 della Costituzione, che prevede che ai pubblici uffici si accede per concorso. Difficilmente, invece, si comprenderebbero esclusioni in materia di sanzioni e limiti sul ricorso al lavoro flessibile, dati gli abusi di cui si è macchiato più volte il datore di lavoro pubblico.

Le differenze da ultimo rappresentate impedirebbero, quindi, di parlare di incostituzionalità in caso di esclusione della PA dall’applicazione delle nuove disposizioni in materia di licenziamento, ma ci devono portare a parlare di altro, ovvero delle ragioni a monte per le quali il datore di lavoro pubblico dovrebbe trovarsi costretto a ricorrere al licenziamento e richiederebbero specifici approfondimenti e interventi, nell’ambito di un ridisegno necessario del settore e della spesa pubblica, sulle funzioni e sull’organizzazione delle pubbliche amministrazioni.

 

 

Prof. Francesco Verbaro